Per la mia riflessione sul Jobs Act, utilizzo provocatoriamente uno slogan anglofono anche per il sottotitolo, ma in questo caso si tratta di un’espressione inglese densa di significato (e vedremo perché), non come l’anglicismo del titolo, ingiustificato, poco chiaro e incongruente.

A poco tempo dall’entrata in vigore delle prime attuazioni di questo provvedimento urgente, sostenuto ormai da circa un anno dal nostro Presidente del Consiglio, infatti, non sono diminuite le incertezze su questa riforma del lavoro proclamata con uno slogan tanto ambiguo, quanto distante dai reali protagonisti del reale mercato del lavoro, imprese e lavoratori.

Sì, perché, il Paroloide (cit. Treccani) Jobs Act, per quanto assurdo, inesatto e incoerente (l’unica definizione e descrizione presente sul sito del Ministero del Lavoro e Politiche Sociali di un anno fa risulta già stravolta), infonde nel popolo un che di accattivante, che fa sopportare meglio tutte le nuove regole, o meglio l’incertezza di quel che sarà la loro applicazione. Tutele crescenti per i neoassunti, revisione delle mansioni del lavoratore, indennizzo per licenziamenti, ecc., pare che rendano meno “pesante” il quadro regolamentare per le imprese che devono inserire e organizzare i lavoratori in organico.

Ma questo non significa che l’occupazione ripartirà, visto che per creare posti di lavoro servono gli investimenti. E quelli non si fanno per legge.

Veniamo allora al nostro sottotitolo, get your act together!, – che può essere tradotto con “rimboccarsi le maniche”, “prendere il coraggio a due mani”: una esortazione all’organizzarsi collettivo, ad agire in modo più efficace nel fare comune. Beh, qui sì che l’espressione anglofona si cala perfettamente nel contesto “lavoro”, dove sono le persone che creano i repertori condivisi, le pratiche più efficaci, connotandole affettivamente[1], facendole quindi proprie, perché è proprio la variabilità, specificità e “situatezza” delle pratiche socio-lavorative, che ne garantisce l’efficacia rispetto ai problemi da affrontare e agli specifici vincoli organizzativi (Alby, Zucchermaglio, 2006).

Se quindi proviamo ad allargare il campo d’azione del costrutto psicologico delle “pratiche lavorative”, in virtù del comune bisogno di sopravvivenza di lavoratori e imprese, si può creare uno spazio di ricostruzione condivisa di significati e pratiche di ripresa e impresa lavorativa, al fine di ridurre il divario tra le politiche del lavoro e il mondo del lavoro reale.

Oggi più che mai imprese e lavoratori sono interdipendenti e allo stesso tempo deregolamentati[2], il tavolo della classica contrapposizione culturale lavorativa (imprenditore-sindacati) deve lasciare spazio a nuovi modelli organizzativi e produttivi, realmente rispondenti e coerenti con l’evoluzione socio-economica. Non possiamo aspettare che le regole generino i nuovi scenari (basta pensare che ad oggi in Italia non esiste un CCNL per le professioni “Internet”), sul campo ci sono imprese moribonde e lavoratori disorientati, vecchi e giovani, che devono necessariamente cominciare a negoziare direttamente le condizioni di un rapporto funzionale e sostenibile per entrambe le parti in causa.

Citando il segretario generale dell’Ocse, Gurria, “il provvedimento Jobs Act può contribuire a mettere il Paese su un sentiero di crescita più dinamica”, è chiaro che si tratta di uno spazio aperto e nuovo che dobbiamo occupare con sperimentazioni organizzative, intraprendenza lavorativa e imprenditoriale, con continue riflessioni sulle possibili evoluzioni sociali ed economiche. E bisogna partire dalle piccole imprese (che sono poi il 98% del tessuto italiano), dove può diventare interessante lavorare e produrre nuove idee, tanto per un neo-laureato, quanto per un lavoratore ricollocato. La reazione sarà per forza a catena, passando dalle grandi imprese fino alle istituzioni che dovranno necessariamente, a quel punto forse in maniera più coerente, arbitrare le dinamiche in gioco.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Carli, R., Paniccia, R. M., (2003), Analisi della domanda. Bologna: Il Mulino
Zucchermaglio C., Alby F. (2006), Psicologia Culturale delle Organizzazioni. Carocci, Roma.

 

LINKOGRAFIA

http://www.treccani.it/magazine/lingua_italiana/parole/delleconomia/Jobs_act.html

[1] I processi di simbolizzazione affettiva sostengono una cultura organizzativa e/o sociale. Tali processi, possono essere definiti come una continua collusione (quindi a livello inconscio) agita dagli attori partecipi dell’organizzazione (Carli, Paniccia, Lancia, 1988). I processi di collusione/significazione agiti in un determinato contesto istituiscono il repertorio di categorie condivise che costituiscono, appunto, una determinata cultura (Carli, Paniccia, 2003).

[2] Di fatto anche il Jobs Act apre le maglie della contrattazione collettiva.

 

(dal blog PSICOLOGIA DEL LAVORO E DELLE ORGANIZZAZIONI, di Marco Vitiello)